Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Arezzo, paziente scopre punta di trapano nella tibia dopo operazione del 1991 e chiede i danni alla Asl

Luca Serafini
  • a
  • a
  • a

Trent’anni dopo l’intervento chirurgico scopre di avere una punta di trapano nell’osso della gamba operata. Un pezzo metallico spezzato e rimasto conficcato nella tibia in quel lontano 22 aprile 1991, all’ospedale di Montevarchi. All’epoca Massimo Gigli era un ragazzo reduce da un bruttissimo incidente stradale. Oggi ha 48 anni e chiede giustizia. La presenza dell’oggetto estraneo è saltata fuori durante un controllo e mercoledì prossimo l’ufficio legale dell’Asl, completata l’istruttoria sul caso, affronterà la questione del risarcimento danni. Lui, Massimo, ha documentato la sua via crucis sanitaria fatta di sofferenze continue acuite a suo dire da quella dimenticanza in sala operatoria. “Tutto ebbe inizio con un incidente stradale all’età di 14 anni, il 3 settembre 1988”, racconta Massimo Gigli. “Frattura esposta scomposta al 100% di tibia e perone : la gamba spezzata e i miei sogni pure”. La prima parte della storia è ambientata a Milano, dove Massimo è nato e vive, a Cambiago, sposato e padre di una bimba di 12 anni. “Venni ricoverato e messo in trazione per circa 40 giorni, dopodiché sdraiato per 6 mesi, e altri 6 mesi di gambale lungo, senza appoggio, insomma ci ho messo quasi due anni a rimettermi in piedi”. Non era finita. “Emerse dalle radiografie che la saldatura della tibia aveva prodotto un frantumo osseo a baionetta, sporgente, pericoloso in caso di urto: fu consigliato a mia mamma di farmi operare da un bravo chirurgo che operava nel reparto di ortopedia di Montevarchi. Lo contattammo e accettò, era il 1991 e fui operato”. Risolto? No, i dolori continui e i problemi fisici alla gamba destra non cessano e accompagneranno Gigli nel corso degli anni. Un paio di anni fa la scoperta della punta di trapano, grazie ad una radiografia. “Incastonato nella mia tibia, mi dicono, c’è un corpo estraneo metallico. Mi metto a ricontrollare tutte le carte di questi trenta anni e ricostruisco che il chirurgo non solo non riferì la cosa a mia mamma, dato che ero minorenne, ma omise il problema nella cartella clinica, che conservo, firmata proprio dal primario. Ero stato operato con asportazione ossea e trivellazione della tibia per far penetrare al suo interno l’acido osseo - prosegue Gigli - altrimenti non si spiega come si possa essere arrivati dal limare un osso sporgente alla tibia ad incastrare una punta di trapano da 2,8 cm. Dimesso l’11 maggio 1991 e tornato a Milano, poi non sono più tornato a Montevarchi. Nei sei mesi successivi avevo una febbriciattola constante e quotidiana, gli specialisti riscontrarono l’osteomielite”. Per bloccare l’infezione - preesistente ma aggravatasi dopo l’intervento in Valdarno - furono necessari tredici costosi vaccini con spese a carico. “Rischiavo l’amputazione, il potente farmaco scongiurò il peggio. Ma i miei problemi sono proseguiti e durante il lockdown ho avuto modo di attivarmi per chiedere ciò che mi spetta. L’8 settembre saprò se l’Azienda sanitaria riconosce il clamoroso errore e agisce di conseguenza o se invece dovrò proseguire la mia battaglia davanti a un giudice”.