
Arezzo, impiegati morti per gas all'Archivio di Stato: processo a 11 imputati tenta di partire dopo quattro anni

Si può lavorare in un ufficio pubblico senza sapere che è un trabocchetto mortale. E’ quello che tragicamente ha insegnato la storia di Piero Bruni e Filippo Bagni, i due impiegati dell’Archivio di Stato morti asfissiati dall’argon il 20 settembre 2018. Un gas invisibile e micidiale che invece di rimanere nelle bombole, pronto ad uscire in caso di incendio, all’improvviso si propaga perché l’impianto è montato con i piedi e con pezzi non adatti, lì nel palazzo dove lo Stato custodisce preziose carte e tiene al lavoro un gruppo di dipendenti ministeriali non adeguatamente preparati all’emergenza, ignari del pericolo. Così avviene il tilt, l’impianto sputa fuori il gas che toglie l’aria e i due impiegati che poco prima hanno dato il bacio del mattino alle mogli uscendo di casa, a casa non ci torneranno più dalle mogli e dai figli perché vanno incontro all’argon che li annienta. Ecco, oggi al tribunale va in scena un’udienza del processo che alla fine, chissà quando, dovrà stabilire se le morti di Piero e Filippo sono figlie del caso o se invece esistono responsabilità penali precise. Legate alle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, alla cura della formazione rispetto ai rischi, al buon senso e alla correttezza professionale nel predisporre, montare e manutenere certi impianti. Una valvola montata al rovescio, lo sfiato esterno inesistente, un pulsante sbagliato, sono alcune delle gravi anomalie emerse nella lunghissima e complessa inchiesta del pm Laura Taddei. Oggi c’è una udienza chiave davanti dal giudice Giorgio Margheri e non si sa se il processo entrerà nei binari giusti e rapidi o no. Omicidio colposo plurimo è l’ipotesi di accusa che riguarda, a vario titolo, undici persone. Un gruppo di imputati che spazia dal direttore di quel periodo dell’Archivio di Stato, Claudio Saviotti, al suo predecessore Antonella D’Agostino, dal vice comandante del Corpo dei Vigili del fuoco Antonio Zumbo, agli addetti alla formazione sul lavoro fino ai tecnici che si sono occupati del maledetto impianto sputa-argon. Le vere protagoniste di questa dolorosa storia sono le mogli e vedove dei due impiegati: donne di straordinaria dignità, forza e compostezza. Parti civili nel processo, chiedono di avere giustizia e che assurdità del genere non si ripetano. Perché morire per lavorare non è mai ammissibile: morire poi come sono morti Piero e Filippo, scesi per le scale a controllare come mai fosse scattato l’allarme, è ancor più assurdo. Dal 2018 ad oggi siamo ancora lontani da una conclusione. Il processo galleggia in una fase preliminare, incomprensibile ai profani di legge, dove il ginepraio di eccezioni, questioni preliminari su notifiche e garanzie, frena il percorso della verità. Lo scorso 7 luglio da parte dei difensori degli imputati aggiunti in una seconda fase delle indagini, è stato chiesto che la relazione sulla maxi perizia sull'impianto - accertamento tecnico irripetibile - non venga inserita come incidente probatorio dato che non poterono nominare propri consulenti ma sia considerata come una consulenza del pm. Vedremo. Questioni di diritto e di garanzie. Al giudice Margheri il responso in attesa delle vere risposte che dovrà dare il processo: ci sono colpe perseguibili nella morte dei due impiegati? Ministero della Cultura e dell’Interno, intanto, non saranno responsabili civili, è stato decretato. Quella mattina successe che la spia dell'impianto anti incendio, si accese senza motivo. Così Bruni e Bagni scesero nel seminterrato del palazzo in cima a Corso Italia per verificare. Sul pianerottolo dello stanzino con centralina e bombole di argon, stramazzarono a terra: non avevano maschere protettive e il gas, [TESTO]era fuoriuscito per malfunzionamenti e montaggi errati, [/TESTO]si era mangiato tutto l’ossigeno intorno.