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La violenza come fuga dall'ansia

Michele Cucuzza
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La misteriosa morte di un giovane 19enne di Padova in gita scolastica, precipitato da una finestra di un albergo a Milano, gli insulti razzisti a una 14enne senegalese in una scuola di Pisa, le manciate di sassi e ghiaia contro una ragazzina disabile lanciate da bulli della sua stessa scuola a Milano. Ce n'è abbastanza per chiedersi sgomenti che cosa stia capitando ai nostri figli, ad alcuni di loro certo, e comunque di quale iceberg queste dolorose vicende siano la punta. Chi gli adolescenti (e i genitori) li frequenta da anni in quanto psicologo e psicoterapeuta, come Stefano Gastaldi dell'Istituto di analisi dei codici affettivi Minotauro di Milano, ci guida in un viaggio difficile ma inevitabile. Tutto comincia nella famiglia che da patriarcale si è trasformata in 'famiglia affettiva': “Facciamo sentire i nostri ragazzi straordinari, sempre, in ogni campo, senza mai farli confrontare con la frustrazione della scoperta che non possono essere in ogni caso i più bravi, i primi in tutto, i più belli, i più importanti (e per questo li si lascia fare i capricci). Il nostro sacrosanto desiderio di fortificarli comunicandogli il nostro affetto, soprattutto quando non siamo particolarmente presenti, finisce per renderli fragili nel momento in cui la crescita li obbliga a confrontarsi con gli altri. In un ambiente competitivo come la scuola o il gruppo c'è sempre qualcuno più capace, più in gamba, più attraente o che ci abbandona: malesseri che andrebbero tollerati e elaborati come stimolo a cercare dentro di sé le proprie qualità e unicità. Fragili, senza gli strumenti per questa ricerca interiore, i ragazzi possono individuare in chi è disabile o ha la pelle di un altro colore chi incarna la loro frustrazione, la loro ansia, attaccandoli per scaricarsi del peso interno che non riescono a elaborare. Complici nel fomentare la loro aggressività, i modelli di crescita sociale, ormai tutti centrati non sulla competenza ma sul successo: vale solo chi ha successo. Aggredendo lo 'sfigato' in modo anche atroce i giovani si illudono di potergli buttare addosso il loro malessere , il loro sentirsi inadeguati. Quando usano la violenza non avvertono neanche il dolore della loro vittima, tutti presi dall'idea di liberarsi del loro male”. I violenti, per fortuna, sono pochi: ' “I ragazzi a volte attaccano se stessi più che gli altri, si deprimono, perdono la scuola, si chiudono, sono di malumore, molto agitati, hanno troppa rabbia”. Campanelli d'allarme che interrogano il nostro modo di educare: “Dobbiamo riflettere sul fatto che amare i figli non vuol dire non prepararli al fallimento, all'insuccesso, alla necessità del recupero delle loro attitudini. Occorrerebbe stimolare il loro entusiasmo, la passione, l'amore, gli unici veicoli appropriati per confrontarsi con gli altri. Perché in realtà sono generazioni meravigliose che, appena trovano la strada per entusiasmarsi, non si risparmiano, esprimendo anche grande creatività”. Il dramma dell'albergo, però, è altra cosa: “Non sappiamo ancora cosa è capitato. Di certo c'è un senso di colpa generale che tiene tappate le bocche. Nessuno sa affrontare la colpa, qualunque sia stata la causa della morte di Domenico. Come non sanno affrontare la frustrazione, i ragazzi non sanno nemmeno assumersi la responsabilità: nell'educazione 'affettiva' non abituiamo i figli a sopportare (non a toglierlo) il peso dei loro comportamenti. Se ci pensiamo, il weekend alcolico, l'uso di sostanze stupefacenti sono per loro un anestetico di fronte all'ansia, alla fragilità, oppure un assentarsi da se stessi vivendo emozioni senza conseguenze”. La scuola? “Le si chiede tanto, a volte troppo. Una cosa dovrebbe considerare irrinunciabile: stimolare la conoscenza dei ragazzi attraverso le emozioni, le motivazioni. Quando i ragazzi si appassionano e trovano un legame tra la loro vita e il sapere, sono bravissimi: imparano anche a tollerare la frustrazione”. [email protected]